Parabole mistiche en plein air

Roberto Faganel: instancabile pellegrino in cerca di visioni vaste da catturare con colori brillanti e veloci pennellate. Vigorose e libere. Osservatore attento e cultore dell’evanescente, sa esaltare l’attimo nelle infinite sfumature che la luce conferisce alle cose, mentre il sole lascia l’orizzonte, sale le vie del cielo per poi smorzarsi in scintille da ardori agostani; mentre si sofferma sui rossi sommacchi dell’amato autunno carsolino, oppure svanisce a baleni nel grigio-rosa di brume lacustri, o ancora tra il bianco primaverile dei ciliegi in fiore.
Dipingere en plein air: questa la vocazione genetica dell’intera sua esistenza. Scivolare con il proprio respiro sulle pietre del tempo, armonizzandosi in esso e travalicando la materia nel ritmo sottile dell’universo. La musica delle sfere, lui, la conobbe durante gli anni di studio al Conservatorio, quando si volse a cogliere la suggestione eterea del violino. Che ricusò dopo una crisi agnitiva, per immergersi nelle cromie pastose della vita, a Trieste, sotto la guida illustre di Nino Perizi e Riccardo Tosti.
Guardiamo ora la foto che accompagna queste righe, osserviamo attentamente: lo sfondo di fitti tronchi di abete. Siamo nel parco del Tricorno, una quindicina di anni fa. E’ l’alba fredda di un giorno estivo in alta montagna. C’è un’imponente figura in primo piano coperta da una maglia pesante a righe larghe. Sicuro nel gesto, Roberto Faganel sta gareggiando con seicento artisti di tutte le nazionalità. Avrebbe vinto il Primo Premio tra gli stranieri con un acquerello rappresentante quegli abeti quasi smarriti in una nebbiolina tenue. Ha un cappello sulla testa. Non per vezzo, per smorzare ogni riverbero strano e per protezione. Lo sa bene chi passa ore e ore all’addiaccio, con tutti i tempi, in tutti i climi. Sotto il cappello si intravede un profilo scolpito e una barba fluente, lo sguardo lo si intuisce intento, la mano sinistra regge la tavolozza, la destra il pennello che segna la tela sul cavalletto.
Un modo di essere, il suo. Lo stesso di Degas, Cézanne, Monet, Renoir.
Pittura en plein air. Passione immensa. Nell’accezione di tormento ed estasi. Cézanne ne morì. Dagli anni ’70 dell’Ottocento dipinse all’aperto fino a morirne, il 22 ottobre 1906. Per un’infreddatura causata da un violento acquazzone. Una banalità all’inizio, mutatasi presto in polmonite letale. Se si è in estro creativo, credo non ci si accorga nemmeno che il cielo si è squarciato e ci sta riversando addosso cascate gelide. Conta solo ciò che fai, come ti muovi, come impasti i colori, quali nuove nuance ne scaturiscono. A ogni strato, ricciolo, strinatura di pigmento una sorpresa magnifica.
Pittura di paesaggio dunque, per fissare con tocco spontaneo il senso del contingente, di ciò che è destinato a dissolversi. Il tuo microcosmo di colpo proiettato sullo schermo dell’assoluto. In simbiosi perfetta. Tale da rubare segreti altrimenti imperscrutabili.
Questo rappresenta la fotografia tanto cara a Roberto Faganel. Là, oltre al dato meramente esteriore, c’è anche un mutarsi complesso, quello dello slancio fervido, dell’entusiasmo, del momento in cui l’uomo si fa profeta, poiché la carne cede allo spirito e gli occhi diventano più azzurri. Diventano gli occhi azzurri di un dio benevolo che tutto comprende nella sua chiaroveggenza.
Ebbene, quando gli artisti creano, usano un linguaggio celeste, poiché in comunione con un’Entità superiore. Ne esprimono le forme, ineffabili ai più, rivelando gamme cangianti che solo loro riconoscono.
Così parla Roberto se ti annuncia un prossimo viaggio: l’Irlanda fra non molto, le isole Aran. Nelle sue frasi, al telefono, c’è sentore di verde intenso, di blu cobalto e schiume candide. Portano l’eco di un consiglio reso proprio, quello suggerito dal poeta Seamus Heaney, quando in Nord cantò: “Mantieni limpido il tuo occhio / come la bolla d’aria nel ghiacciolo, / fidati della percezione di quel nocciolo di tesoro / che le tue mani hanno conosciuto”. Nel fluire cristallino della Bellezza e della sua Verità, dipingerà da forsennato. Il traghetto, il treno, la corriera, le barche dei pescatori: atelier improvvisati e provvidenziali. Le spiagge e le baie: stanze ariose, sonanti di ispirazione come vele per raffiche selvagge. Spargerà acque tinte, imprimerà suggelli unici su carte pregiate di album da disegno e carte qualsiasi – fogli banali di grana povera - attingendo alla scatola magica dei suoi tubetti, fiale, pastelli, carboncini, sanguigne. Pescando “arnesi” del mestiere dalle innumerevoli tasche della sua cacciatora, reduce da mille battaglie con la realtà tentata e ritentata nel profondo.
E ci saranno giochi di voyeurismo. Perché le onde dell’oceano, le sue alghe, le rocce muscose, l’umile erba germogliante dalla torba, la pioggerellina metallica che accarezza insistente, i chicchi di grandine, le venature onnipresenti delle nubi spatolate dal vento entreranno nel cerchio della sua grazia, registrandosi in lui e nelle sue opere prime come ricchi capitoli di un nuovo ciclo straordinario.
 
Irene Navarra, Speciale Cultura di Voce Isontina, 30 gennaio 2010